La cessione dei crediti vantati verso la Pubblica Amministrazione

La cessione dei crediti PA è un tema sempre di grande attualità ed interesse. In un recente webinar giuridico organizzato da Assifact, si è colta l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte del complesso quadro normativo in vigore e per approfondire le peculiarità di questa tipologia di operazioni di factoring. Con il Prof. Macchia si è discusso di privilegi dello Stato debitore e tutela dei diritti economici

Introduzione a cura di Nicoletta Burini

In un recente webinar organizzato da Assifact, prendendo il passo da alcune sentenze commentate sugli ultimi numeri pubblicati dell’Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring, si sono analizzati gli ultimi orientamenti giurisprudenziali maturati in tema di cessione dei crediti vantati verso la Pubblica Amministrazione. Si è così colta l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte del complesso quadro normativo in vigore e per approfondire i principali aspetti che caratterizzano le peculiarità di questa tipologia di operazioni di factoring.

L’alternarsi di relatori di comprovata esperienza e di differente provenienza professionale ha permesso di delineare i vari profili d’interessa e di utilità della cessione dei crediti della Pubblica Amministrazione, portando alla luce anche le criticità dal punto di vista non solo del cedente e del cessionario, che sono parte attiva dell’operazione, ma anche del debitore ceduto ente pubblico, che in un certo qual modo “subisce” l’operazione.

La ricostruzione giurisprudenziale degli avvocati Alessandra Fossati e Raffaele Cavani dello Studio Legale Munari Cavani, curatori dell’Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring, ha fatto emergere la complessa, non sempre chiara e talvolta incoerente normativa di riferimento per operazioni di cessioni di crediti vantati verso la Pubblica Amministrazione.

I Factor devono osservare i precetti di una copiosa attività normativa, a volte oggetto di stratificazione temporale (se si pensa che ancora oggi richiamiamo la Legge n. 2248/1865), concernente, di volta in volta, l’Amministrazione Statale, gli Enti pubblici territoriali, le Strutture sanitarie, le disposizioni in tema di appalti, le norme sul dissesto degli Enti, le azioni legali e le attività esecutive per il recupero coattivo dei crediti impagati, la normativa regolamentare emessa dai Regulator nazionali ed europei.

In questo complicato scenario regolamentare, Massimiliano Belingheri, CEO di BFF e Vice Presidente di Assifact, e Vittorio Giustiniani, Responsabile del Servizio Governo Societario di Emilia Romagna Factor e Coordinatore della Commissione Legale Assifact, hanno evidenziato la rilevanza e l’utilità dello strumento factoring per le imprese fornitrici della pubblica Amministrazione e le criticità che spesso gli operatori incontrano per realizzare l’operazione e supportare le imprese.

Il factoring rappresenta per le imprese fornitrici della Pubblica Amministrazione non solo una fonte di sostegno della liquidità, a fronte di un fenomeno di abitudini di pagamento dei debitori non in linea con le medie europee, ma anche un servizio gestionale ad elevato valore aggiunto, in considerazione della frequente complessità dei rapporti amministrativi con gli enti.

Le norme di riferimento per le cessioni dei crediti PA appaiono oggi non più adeguate alle esigenze dei tempi. Oltre al profilo delle formalità della cessione, si richiama in particolare la disposizione che richiede il preventivo assenso della PA nel caso di cessione di credito derivante da contratti in corso (art.9, all.E, Ln. 2248/1865). La ratio di tale previsione si fonda nell’esigenza di evitare che durante la vigenza del contratto possano venire a mancare i mezzi finanziari al soggetto obbligato alla prestazione in favore della PA.

Non volendo entrare nel merito storico di quello che è stato definito un privilegio dello Stato debitore, è corretto domandarsi se tale privilegio abbia ancora titolo di rimanere nell’attuale contesto sociale, economico e finanziario. Certamente questo non favorisce l’accesso al credito da parte delle imprese né contribuisce al processo di snellimento e semplificazione invocato dai Factor ma anche più volte richiamato dalla Commissione Europea.

Per l’ing. Gianpiero Zaffi Borgetti di Ifel Fondazione Anci il lavoro svolto negli ultimi anni dagli Enti Locali, anche con il supporto di ANCI, in materia di debito commerciale è di grande rilevanza. Sotto il profilo dell’abbattimento dei debiti pregressi, oltre alla gestione dei fondi per il pagamento degli stessi, gli Enti hanno affrontato numerosi interventi di adeguamento per la certificazione dei crediti su istanza ai sensi del DL. 185/2008 e la ricognizione dei debiti (comunicazione dei debiti ex d.l. 35/2013, oggi con siope+). Ingente anche l’impegno sotto il profilo del monitoraggio dei debiti commerciali di nuova formazione (piattaforma dei crediti commerciali, siope+).

Si è fatto molto per assicurare lo smaltimento dello stock del debito residuo e il rispetto dei tempi di pagamento, con un pesante processo evolutivo dei sistemi che è ancora in corso.

Pur condividendo l’utilità del factoring per il ruolo significativo svolto nel miglioramento della gestione dei crediti delle imprese e per la potenzialità nella razionalizzazione dei processi di pagamento della PA e nella evoluzione del rapporto PA – Fornitori, dalle operazioni di cessione dei debiti commerciali della PA, alcuni enti locali hanno segnalato criticità applicative derivanti da un gravoso appesantimento dell’attività istruttoria per effettuare le necessarie verifiche contabili ed il ricalcolo degli eventuali importi dovuti. Vengono altresì segnalate casistiche problematiche legate a richieste di pagamento di crediti già saldati, compensati con note di credito o per i quali era stato comunicato il rifiuto della cessione. In generale, il rapporto con l’impresa appare più facile e contraddistinto da un minor rischio di contenzioso.

Per i Comuni sembra emergere un intensificarsi del ricorso alle cessioni dei crediti con riferimento alle forniture di servizi soggetti a bollettazione e quelle connesse a forniture multiservizi, che generano problemi gestionali, di ricognizione e riconciliazione, mentre non risulta valorizzato il ricorso a tale strumento al fine di orientare le relazioni fra PA e Imprese verso un processo di collaborazione.

Temi su cui vale senz’altro la pena avviare un confronto e una discussione in un’ottica di creazione del valore per tutte le controparti coinvolte.

L’intervento del Prof. Marco Macchia dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” completa il webinar con un approfondimento sul profilo dei privilegi dello Stato debitore e sulla tutela dei diritti economici, trattando tre aspetti importanti: l’opportunità di agevolare gli strumenti finanziari per le amministrazioni, la natura del consenso della PA, la lotta contro i ritardi di pagamento e il rimedio del factoring indiretto.

Cessione del credito, privilegi dello Stato debitore e tutela dei diritti economici | a cura del Prof. Marco Macchia

  1. Agevolare gli strumenti finanziari per le amministrazioni

Il Piano di ripresa e resilienza, alimentato da risorse europee, pone le basi per una significativa modifica della struttura del sistema Italia. La sfida è quella di superare l’inerzia dell’economia nazionale. Per tale obiettivo le misure pianificate sono numerosissime e combinano diverse tipologie di intervento pubblico. Tra queste merita sicuramente di essere menzionata l’introduzione di strumenti finanziari quasi inediti per le pubbliche amministrazioni, come la cessione del credito e il pagamento anticipato, diretti ad agevolare nel breve periodo gli ingenti investimenti iniziali [1].

In altre parole, la necessità di superare la crisi economica, che affligge il Paese all’indomani della pandemia da Covid-19, impone di rivalutare i tradizionali strumenti di mobilizzazione della ricchezza e soprattutto di riconoscere i pregi di istituti come la cessione del credito e il contratto di factoring, in grado di assolvere allo stesso tempo a funzioni di garanzia, assicurative e di finanziamento, nonché di organizzazione delle attività imprenditoriali.

Per valorizzare effettivamente tali strumenti negoziali è noto che occorre ripensare quell’atipico pregiudizio di stampo ottocentesco, accordato alle pubbliche amministrazioni, consistente nel poter rifiutare la cessione del credito. Un privilegio robusto, protetto dalla giurisprudenza che lo ha sempre ritenuto quasi insindacabile, non assoggettato nemmeno ad un chiaro obbligo motivazionale, tale da sfuggire perciò alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo.

Come risaputo, il privilegio di opporsi alla cedibilità dei crediti vantati nei confronti di una pubblica amministrazione risale al combinato disposto degli artt. 69 e 70 del r.d. n. 2440/1923, nonché l’art. 9 della l. n. 2248/1865 all. e da essi richiamato. La disposizione di cui all’art. 9 appunto, secondo cui sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione se non vi aderisca l’amministrazione interessata, è la fonte normativa a sostegno della pretesa necessità di accettazione della cessione ai fini dell’efficacia della stessa.

Quando l’atto di cessione dei crediti non è espressamente accettato dall’amministrazione ceduta, lo stesso non è opponibile all’autorità pubblica coinvolta. La ragione di tale statuto pubblico peculiare risale ad una ormai superata subordinazione dei privati rispetto ai poteri iure imperii, ovvero ad una spiccata tutela dell’autorità collegata all’interesse pubblico all’esatto adempimento delle obbligazioni contratte, rispetto alle quali la cessione del credito potrebbe esporre l’impresa fornitrice ad una crisi di liquidità tale da impedire di portare a conclusione l’opera o la fornitura.

Nondimeno, il formante giurisprudenziale tende a mostrare un ripensamento rispetto alla acritica e indiscriminata applicazione di tale privilegio pubblicistico. Se in passato si riteneva che il potere di rifiutare la cessione fosse applicabile non solo allo Stato e agli enti pubblici territoriali come da dettato normativo, ma potesse essere altresì esteso per via interpretativa ad enti diversi da tali soggetti, negli ultimi tempi la tendenza appare opposta, ossia tesa a ridimensionare e ridurre l’ambito applicativo di tale potestà pubblicistica.

Basti pensare come, di recente, si sia condivisibilmente sancito che il diritto di rifiutare la cessione dei crediti non spetta alle aziende sanitarie locali. Pertanto, «l’applicazione analogica delle suddette norme nel caso delle aziende sanitarie locali […] è da escludersi proprio per le caratteristiche peculiari che differenziano tali enti da quelli statali o territoriali: al fine di perseguire i propri fini istituzionali, le ASL (o ULSS o AULS) sono costituite con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, e la loro organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato nel rispetto della normativa regionale di riferimento (cui è demandata la disciplina per la gestione economica, finanziaria e patrimoniale dell’ente). In caso di cessione dei crediti ritualmente notificata e conforme alla normativa, la mancata accettazione o il rifiuto da parte di un’azienda sanitaria locale non avrà alcun effetto sulla validità della stessa che dovrà considerarsi pienamente opponibile nei confronti dell’ente stesso» [2].

Anche il legislatore – sebbene limitatamente all’ambito dei contratti pubblici – ha riconosciuto da tempo la necessità di modificare per tale settore l’impianto originario del sistema. In tema di cessione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione, atteso il tenore dell’art. 106 del d.lgs. n. 50/2016, rubricato “Modifica dei contratti durante il periodo di efficacia”, l’ente ceduto ha l’onere di manifestare espressamente il rifiuto della cessione nel termine perentorio di 45 giorni dalla notifica della cessione stessa. In assenza del detto rifiuto la cessione si ha per accettata con conseguente legittimazione del creditore ceduto ad agire per la riscossione del credito ceduto. È previsto, difatti, al comma 13 che «le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, concorso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessioni».

Ne consegue che l’autorità pubblica deve manifestare espressamente il proprio rifiuto alla cessione, non essendo in alcun modo rilevante la circostanza che, anche a seguito della cessione, continui a corrispondere gli importi relativi alle fatture cedute direttamente all’originario appaltatore, trattandosi di pagamenti non liberatori nei confronti del cessionario. Tale disciplina della cessione dei crediti vantati nei confronti dell’amministrazione ha natura speciale rispetto alla disciplina codicistica della cessione dei crediti di cui agli articoli 1260 e seguenti del codice civile e prevale sulla precedente disciplina prevista dall’art. 70 del r.d. n. 2440/1923, che all’inverso prevedeva l’adesione espressa dell’autorità pubblica ceduta.

Eppure non sempre le tendenze sono lineari e capita anche che riemergano potestà pubblicistiche all’interno di un rapporto privato. Ad esempio, la l. 17 luglio 2020 n. 77 (che ha convertito il decreto rilancio 19 maggio 2020 n. 34) ha introdotto con l’art. 117 comma 4-bis una disposizione specifica in materia di crediti sanitari. In particolare si prevede che «i crediti commerciali certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale in conseguenza di accordi contrattuali stipulati ai sensi dell’articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, ove non certificati mediante la piattaforma elettronica di cui all’articolo 7 del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2013, n. 64, possono essere ceduti, anche ai sensi della legge 30 aprile 1999, n. 130, solo a seguito di notificazione della cessione all’ente debitore e di espressa accettazione da parte di esso. L’ente debitore, effettuate le occorrenti verifiche, comunica al cedente e al cessionario l’accettazione o il rifiuto della cessione del credito entro quarantacinque giorni dalla data della notificazione, decorsi inutilmente i quali la cessione si intende rifiutata. In ogni caso la cessione dei crediti, anche se certificati mediante la citata piattaforma elettronica, deve essere notificata all’ente debitore con l’indicazione puntuale degli estremi delle singole partite creditorie cedute. L’ente debitore non risponde dei pagamenti effettuati al cedente prima della notificazione dell’atto di cessione». È evidente che il meccanismo del silenzio-rifiuto può rappresentare un ostacolo alla cessione dei crediti nei confronti degli enti sanitari nazionali e può impedire lo smobilizzo di risorse e un più facile accesso ad una fonte di liquidità per le imprese.

Stando così le cose, si può ancora parlare di privilegi dello Stato debitore? O non occorre, invece, declinare gli istituti della cessione dei crediti e del factoring, maturati dai privati nei riguardi dell’amministrazione, secondo una logica più attuale e adattata a questi tempi di crisi economiche? Dal momento che le tendenze sono contrastanti, vale la pena concentrare rapidamente l’attenzione sulla regolazione della dinamica negoziale e sul ruolo del potere pubblico nel caso di specie.

  1. La natura del consenso della pubblica amministrazione

Che il regime normativo della cessione dei crediti sia parcellizzato è evidente anche in base ai numerosi richiami normativi sopra indicati. Tradizionalmente si ritiene valido il principio secondo cui – giacché la cessione di un credito di un privato verso una pubblica amministrazione statale deve risultare da atto pubblico o da scrittura privata autenticata da notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato e il relativo atto deve essere notificato nei modi di legge – ove una tale cessione sia realizzata in forme diverse, essa è valida nei rapporti tra cedente e cessionario, trattandosi di atto avente natura consensuale, ma è inefficace nei confronti della (quindi inopponibile alla) pubblica amministrazione medesima [3].

Non si tratta, dunque, di una nullità ma di una ipotesi di inefficacia della cessione nell’interesse esclusivo del debitore ceduto, che permette di considerare liberatorio il pagamento eventualmente effettuato in buona fede al cedente anziché al cessionario, pur dopo che la cessione, non effettuata nelle forme indicate, gli sia stata notificata [4]. Il debitore ceduto, pertanto, è il solo titolato a farla valere, proponendo una eccezione in senso stretto nei modi e tempi processuali consentiti.

La necessità del consenso della pubblica amministrazione, difatti, costituisce elemento accessorio, accidentale, la cui presenza od assenza non altera la struttura del contratto che rimane immutato pur prescindendone. Tanto basta a far ritenere che l’intervento della pubblica amministrazione non assuma forza di elemento costitutivo della cessione del credito.

Il negozio di cessione, valido tra le parti, sarebbe ostacolato pertanto dalla legge nei suoi “effetti pratici”, nel senso che la norma prescrivente l’adesione dell’ente pubblico avrebbe per scopo di evitare che l’appaltatore si privi di mezzi necessari al compimento dell’opera.

In questo quadro, la natura dell’atto della pubblica amministrazione appare di un atto a sé stante, coordinato con quello del cedente. Ossia un atto, che, come una specie di condizione sospensiva, impedisce la produzione di effetti del negozio con funzioni di garanzia e estintive delle obbligazioni pregresse. Il riconoscimento del debitore rimuove un limite alla facoltà di disposizione del diritto, e si colloca nella categoria della “autorizzazione”. L’autorizzazione, in altri termini, sarebbe un atto che, pur rimanendo all’esterno del ciclo formativo del negozio, si combina con la dichiarazione di una parte, rendendo così attuale la piena efficacia dell’atto.

Se ciò è vero, si possono enumerare diverse tipologie di tale atto autorizzatorio. Nei casi ordinari essa potrà classificarsi come un’autorizzazione espressa, nelle fattispecie dei contratti di appalto o di concessione secondo l’art. 106 del codice dei contratti una autorizzazione tacita sotto la forma del silenzio assenso, in materia di crediti sanitari opera invece un’autorizzazione sotto forma di silenzio rifiuto. E ancora potrà realizzarsi anche un’autorizzazione per fatti concludenti, allorquando la cessione, seppure non effettuata nelle forme indicate, sia comunque accettata dalla pubblica amministrazione con altre forme [5].

Oppure ancora è possibile inserire nella pattuizione negoziale una clausola contrattuale contenente il divieto di cessione, purché sia comprovato il richiamo dell’attenzione del contraente (creditore cedente) sulle clausole approvate. In tal modo, l’esigenza di tutela codificata nell’art. 1341 c.c. risulta rispettata, dovendo reputarsi essere stata l’attenzione del contraente, ai cui danni la clausola è stata predisposta, adeguatamente sollecitata e la sua sottoscrizione in modo consapevole rivolta specificamente proprio anche a tale contenuto a lui sfavorevole.

  1. La lotta contro i ritardi di pagamento e il rimedio del factoring indiretto

Già la direttiva n. 35/2000 (poi abrogata) interveniva a censurare i ritardi e i periodi di pagamento eccessivi ritenuti di fatto pesanti oneri amministrativi e finanziari imposti alle imprese, ed in particolare a quelle di piccole e medie dimensioni, tali da costituire un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno. Il puntuale e sollecito adempimento delle obbligazioni pecuniarie costituisce una componente fondamentale del corretto funzionamento di un’economia di mercato, mentre all’opposto i ritardi costituiscono una tra le principali cause d’insolvenza, determinano la perdita di numerosi posti di lavoro e generano distorsioni alla concorrenza.

La direttiva n. 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che ha abrogato la precedente, si applica anche ai rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni, proibendo l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore. Affinché un’operazione sia sussumibile nella nozione di “transazione commerciale”, essa deve, in primo luogo, essere effettuata tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni e, in secondo luogo, comportare la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo.

Da qui l’applicazione generale del principio della piena soggezione al diritto comune delle obbligazioni pecuniarie delle pubbliche autorità nell’ambito delle transazioni commerciali, da cui consegue che le amministrazioni non possono godere di trattamenti di privilegio i quali, quand’anche legislativamente disposti devono essere disapplicati in quanto contrastanti con la normativa dell’Unione europea.

In virtù di ciò lo scenario appare notevolmente mutato, quasi come vi fosse oggi più che mai una transizione (se vista con la lente sovranazionale) da un’amministrazione parificata ai privati verso una specifica disciplina non di privilegio, bensì più sfavorevole volta a riequilibrare la forza contrattuale dell’amministrazione stessa. Secondo la direttiva n. 7 del 2011 diretta ad abbreviare i tempi delle amministrazioni pubbliche in ordine ai pagamenti, le autorità pubbliche devono vedersi applicati gli interessi legali di mora e non possono concordare tassi differenti né pattuire termini di pagamento differenti da quelli imposti dalla direttiva. Si intende in questo modo contrastare con una disciplina ad hoc quelle forme di abuso di posizione dominate.

Non solo. Come ha chiarito la giurisprudenza europea, un appalto pubblico di lavori costituisce una transazione commerciale che comporta la consegna di merci o la prestazione di servizi, e rientra quindi nell’ambito di applicazione ratione materiae di tale direttiva. Difatti, la norma europea mira ad armonizzare le conseguenze del pagamento tardivo per conferire loro un effetto dissuasivo, in modo che le transazioni commerciali in tutto il mercato interno non risultino ostacolate per cui «l’esclusione di una parte non trascurabile delle transazioni commerciali, vale a dire quelle relative agli appalti pubblici di lavori, dal beneficio dei meccanismi di lotta contro i ritardi di pagamento previsti dalla direttiva, da un lato, contrasterebbe con l’obiettivo di tale direttiva, enunciato al suo considerando 22, secondo cui la stessa deve disciplinare tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche. Dall’altro lato, una siffatta esclusione avrebbe necessariamente la conseguenza di ridurre l’effetto utile dei suddetti meccanismi, anche rispetto alle transazioni che possono coinvolgere operatori provenienti da diversi Stati membri. Ciò vale a maggior ragione in quanto, come sottolineato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, nel settore degli appalti pubblici di lavori, i ritardi di pagamento possono porre problemi molto più rilevanti che in altri settori, a motivo dell’onerosità economica e dei rischi che tali appalti comportano per gli operatori economici» [6].

Eppure, di fatto, ciò che accade è ben diverso. Frequentemente gli interessi di mora non vengono chiesti dalle imprese interessate per timore di perdere le commesse pubbliche. Permangono forti ritardi sui pagamenti dei lavori, arrivando a circa novanta giorni di attesa rispetto alla media europea, che si assesta sui quarantasei giorni, e ai trenta giorni imposti dalla direttiva dell’Unione europea.

Un aiuto in tal senso sta venendo dalla digitalizzazione delle fatture, con la dematerializzazione sono stati fatti passi avanti importanti. Il sistema di interscambio consente di prendere la fattura del fornitore e riversarla nella piattaforma dei crediti commerciali. Il sistema Siope dematerializza il pagamento e facilita l’ente pubblico, alimentando automaticamente la piattaforma dei crediti commerciali. È palese come l’introduzione della dematerializzazione del ciclo passivo del pagamento sia stata rilevante. Eppure ciò non sembra bastare e appare necessario fare un passo ulteriore.

Il factoring indiretto è sovente pubblicizzato come particolarmente utile alle grandi imprese che vantino una complessa rete di fornitori all’estero, poiché l’intervento del factor, specie se unito alla digitalizzazione di fatture e pagamenti e all’uso di sistemi intelligenti (come le tecnologie blockchain) per tracciare la regolarità degli adempimenti dei fornitori, libera la grande impresa dei costi dell’amministrazione delle posizioni debitorie [7].

In estrema sintesi, il nucleo comune del factoring indiretto si ritrova nella circostanza che esso assomiglia a un’operazione di factoring nella quale però le posizioni di creditore cedente e debitore ceduto sono invertite. In una cessione ordinaria di crediti di impresa, il cedente è d’abitudine un’impresa fornitrice di beni e/o servizi la quale, maturando regolarmente crediti nei confronti dei suoi clienti, decide di trasferire, o di obbligarsi a trasferire quei crediti a titolo oneroso a favore di un operatore specializzato (tipicamente: una banca o una società di factoring). Dal canto suo, quest’ultimo liquida o s’impegna a liquidare all’impresa una somma pari al valore dei crediti ceduti, detratta una data percentuale, oltre che a fornire una serie di prestazioni aventi contenuto differenziato, fra cui rilevano la contabilizzazione, la gestione e l’esazione dei crediti ceduti. Per intenderci, nel factoring tradizionale, i crediti oggetto di cessione nascono da contratti di fornitura di beni e/o servizi, ove è il venditore/fornitore a rivolgersi al factor; nel factoring ordinario, vi è d’abitudine un cedente e una massa di debitori ceduti; mentre nel factoring indiretto vi è una debitrice ceduta e una massa di creditori cedenti.

Il factoring indiretto consente anzitutto all’impresa iniziatrice di trasferire in tutto o in parte i costi e gli oneri di gestione delle sue posizioni debitorie in capo al factor, di ottenere la garanzia che il pagamento di quei debiti sia effettuato (dal factor) entro i termini indicati nelle fatture (tipicamente 30 o 60 giorni) e di assicurarsi lunghe dilazioni di pagamento, poiché la contrattualistica prevede che il factor agisca verso l’impresa iniziatrice per il recupero dei crediti ottenuti in cessione solo dopo 120/180 giorni dall’emissione delle fatture.

Per questo, nell’Unione europea, laddove la disciplina dei crediti commerciali è particolarmente stringente, imponendo al debitore il pagamento entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della fattura, eccezionalmente allungabile fino a sessanta giorni, si sottolinea da più parti come il factoring indiretto sia uno strumento privilegiato per risolvere il problema dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, permettendo all’impresa iniziatrice di rispettare la normativa al riguardo nei confronti dei propri fornitori, al contempo godendo delle dilazioni concessele dal factor.

L’impresa e il factor si accordano, in modo più o meno formalizzato, affinché il secondo si renda cessionario dei crediti vantati nei confronti della prima da parte di alcuni fornitori selezionati e liquidi loro il valore dei loro crediti (alla scadenza o anticipatamente).

Sarà poi il factor a rivalersi nei confronti dell’impresa iniziatrice, normalmente concedendo a quest’ultima una dilazione di pagamento ulteriore rispetto al termine indicato nelle fatture e imputandole il costo delle commissioni e degli interessi maturati sulle somme dovute. Usualmente factor e impresa iniziatrice definiscono a monte il paniere di fornitori cui proporre l’affare, individuandoli fra quelli maggiormente dipendenti economicamente dall’impresa iniziatrice e maggiormente affidabili nei loro adempimenti contrattuali; non di rado, impresa iniziatrice e factor realizzano un database, più o meno tecnologicamente avanzato, che tiene traccia del comportamento dei fornitori e attribuisce loro un rating, in relazione al quale viene modulato il rapporto fra factor e fornitori.

Gli accordi consensuali possono chiaramente atteggiarsi variamente. Essi possono prevedere che il factor versi il corrispettivo pattuito (ossia, paghi il credito) alla scadenza del termine indicato nella fattura (nel qual caso al factor sarà dovuta solo una commissione per il servizio reso) oppure che il factor ne anticipi il pagamento rispetto alla scadenza (nel qual caso il fornitore cedente avrà il vantaggio di ottenere liquidità ante tempus, ma dovrà anche versare al factor, oltre che la commissione, gli interessi sulle somme ricevute anticipatamente o praticare uno sconto, di regola pari al 2%, sull’ammontare delle fatture). È possibile che il factor offra, ai fornitori che maturino un rating elevato, altri servizi di natura creditizio-finanziaria. Può darsi che la pattuizione iniziale regoli la totalità dei rapporti fra cedente e factor.

Deve rammentarsi chiaramente che la conclusione di un factoring indiretto non è senza costi per i cedenti, che sono tenuti a versare al factor le commissioni e, nell’ipotesi di anticipazione dei termini di pagamento, a pagare gli interessi sulle somme ricevute anticipatamente e/o a praticare uno sconto su quanto dovuto. In altri termini, i fornitori si ritrovano a dover pagare il factor affinché questi liquidi loro i crediti (alla scadenza o anticipatamente), così finanziando la possibilità per l’impresa iniziatrice di rispettare formalmente i termini di pagamento e di godere delle lunghe dilazioni dal factor concesse nei suoi confronti.

Il diritto delle crisi e le necessità di finanziamento e ausilio finanziario scatenate dalla crisi pandemica sembrano aprire oggi la strada ad un pieno riconoscimento normativo del factoring indiretto come strumento per le pubbliche amministrazioni anche per superare il problema dei ritardi dei pagamenti. Non si tratterebbe di una normativa né di privilegio né di sfavore che riguardi gli interessi diretti dello Stato debitore, la quale sarebbe invece figlia di un’ottica miope dell’interesse pubblico visto solo come interesse di settore e contraria all’interesse generale. Una visione che copre inefficienze e sprechi delle pubbliche amministrazioni, quando invece l’interesse pubblico sta nel buon funzionamento del mercato e nella mancata distorsione della concorrenza.

[1] In altro capitolo, riferito al rilancio del comparto dell’edilizia, si afferma che «per far fronte ai lunghi tempi di ammortamento delle ristrutturazioni degli edifici, per stimolare il settore edilizio, da anni in grave crisi, e per raggiungere gli obiettivi sfidanti di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni al 2030, si intende estendere la misura del Superbonus 110 per cento recentemente introdotta (articolo 119 del Decreto Rilancio) dal 2021 al 2023 (al 30 giugno 2023 per gli interventi effettuati dagli IACP, a condizione almeno il 60 per cento dei lavori siano stati effettuati alla fine del 2022; al 31 dicembre 2022 per gli interventi effettuati dai condomini, a condizione che almeno il 60 per cento dei lavori sia stato effettuato entro il 30 giugno precedente)» «il sostegno sarà fornito in forma di detrazione fiscale pari al 110 per cento delle spese sostenute, usufruibili in un periodo di 5 anni e disponibili per chi intende effettuare ristrutturazioni energetiche e antisismiche degli edifici residenziali. La misura prevede inoltre l’introduzione di strumenti finanziari come la “cessione del credito” e il “pagamento anticipato” per agevolare gli ingenti investimenti iniziali».

[2] Così in Tribunale Milano, sez. I, 11 novembre 2020, n. 7130.

[3] Cass. n. 32788/2019; Id. n. 30658/2017; Id. n. 21747/2016; Id. n. 5493/2013; Id. n. 12901/2004.

[4] Cass. n. 15153/2000.

[5] Secondo Cass. n. 15153/2000, il successivo pagamento effettuato al cedente non libera l’amministrazione nei confronti del cessionario, nondimeno resta pur sempre salva la facoltà di accettazione da parte della stessa amministrazione.

[6] Corte giust., 18 novembre 2020, in causa C-299/19, ove si aggiunge che «Per quanto riguarda, in quarto luogo, la genesi della direttiva 2000/35, si deve rilevare che, nella relazione sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, del 25 marzo 1998 (GU 1998, C 168, pag. 13), all’origine di tale direttiva, la Commissione ha messo in evidenza, da un lato, lo squilibrio contrattuale che esiste tra un gran numero di imprese e alcune pubbliche amministrazioni, specialmente in determinati settori, come l’edilizia, in conseguenza del quale le condizioni di pagamento possono essere imposte a tali imprese senza che esse abbiano effettivamente la possibilità di negoziarle e, dall’altro, la necessità di disciplinare le conseguenze dei ritardi di pagamento nel settore dell’edilizia pubblica».

[7] Giova ricordare che l’espressione «factoring» definisce un particolare tipo di contratto con cui l’imprenditore (cedente o fornitore) cede, o si impegna a cedere, ad un altro imprenditore (factor), avente determinate caratteristiche, tutti i crediti derivati e derivandi dall’esercizio dell’impresa. Si tratta di un contratto che può dirsi ancora essenzialmente atipico (così Cass. 8 febbraio 2007 n. 2746), disciplinato solo in parte e solo recentemente dalla legge, ascrivibile all’esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti di cui all’art. 1322 c.c. In questo caso l’interesse meritevole di tutela è rappresentato dalla possibilità per l’imprenditore di ottenere, mediante mobilizzazione del portafoglio clienti, una semplificazione della gestione commerciale ed un più agevole accesso al credito. Il trasferimento del credito è valido ed efficace nei confronti del ceduto a prescindere dal suo eventuale consenso – ed anzi anche contro la sua volontà (Cass. 11 maggio 2007 n. 10833) – e il factor, alla scadenza, può pretendere il pagamento del debitore purché dimostri di essere titolare del credito. Ciò comporta anche un’esigenza maggiore di tutela del debitore che si vede cedere il debito senza o addirittura contro la sua volontà. Una prima regolamentazione di alcuni aspetti del rapporto di factoring si è avuta con la l. 21 febbraio 1991 n. 52, che ha inteso dare una regolamentazione specifica alla cessione dei crediti di impresa rispondenti a determinati requisiti: il cedente deve essere un imprenditore, i crediti ceduti devono sorgere da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’impresa, il cessionario può essere solo una banca o un intermediario finanziario disciplinato dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, il cui oggetto sociale preveda appunto l’esercizio dell’attività di acquisto di crediti d’impresa. Successivamente la l. 14 luglio 1993 n. 260 ha ratificato la Convenzione Unidroit sul factoring internazionale stipulata a Ottawa il 28 maggio 1988, che è valsa ad arricchire la regolamentazione di alcuni aspetti del factoring, prevedendo tra l’altro la forma scritta della comunicazione al debitore della cessione del credito dall’imprenditore al factor. Secondo Cass., sez. III, 28 febbraio 2008, n. 5302, in caso di cessione da parte dell’appaltatore di lavori per una pubblica amministrazione (committente) di una quota del credito del primo nei confronti di quest’ultima ad un cessionario (c.d. «factor») in forza di un rapporto di factoring, la pubblica amministrazione, debitore ceduto, può eccepire al cessionario l’intervenuta risoluzione per inadempimento del contratto di appalto che ha efficacia retroattiva tra le parti.