I prigionieri del credito: patto di incedibilità e confini dell’autonomia privata
Immaginiamo il creditore, vincolato da un patto di incedibilità, come un naufrago su un’isola deserta; ha in mano un tesoro – il suo credito – ma è impossibilitato sia a utilizzarlo, sia a farlo conoscere al mondo esterno

Legato da un patto, da lui stesso sottoscritto, che gli impedisce di cedere quel credito, il creditore diventa vittima della propria autonomia negoziale. E quando il debitore non paga, questa libertà apparente si rivela una gabbia, dove il diritto di credito diventa un bene privo di (attuale) valore.
Non sembra accettabile che l’ordinamento permetta simili paradossi.
La libera circolazione dei crediti, come noto, rappresenta una delle espressioni più tipiche del moderno ordinamento privatistico; invero, risponde a un principio economico, ancora prima che giuridico, il rendere il più agile possibile la circolazione del diritto di credito. L’assenza di una forma minima della cessione (salva l’ipotesi eccezionale di quella imposta dal TUB o dal Codice degli appalti), conferma questo principio: il credito, quale bene immateriale dotato di contenuto patrimoniale, è oggetto di libera trasferibilità, in linea con l’esigenza di garantire efficienza, liquidità e sicurezza nei traffici giuridici.
La norma posta all’art. 1260 cod. civ. codifica questa esigenza, disponendo che il credito possa essere ceduto, anche senza il consenso del debitore, salvo che il divieto risulti dalla legge, dal contratto o dalla natura del credito. Il capoverso della norma prevede altresì che, in caso di pattuizione contraria (i.e. di incedibilità convenzionale), la cessione sia inefficace nei confronti del debitore solo ove questi dimostri che il cessionario ne era a conoscenza. Onere che, in verità, sarebbe di difficile dimostrazione, se non fosse che al cessionario del credito – nell’ambito di un rapporto di factoring – è richiesta la speciale diligenza professionale imposta dal capoverso dell’art. 1176 cod. civ.
In questo contesto, il pactum de non cedendo merita ampia riflessione, ed una sua valutazione dal punto di vista della legittimità e validità, almeno per evitare il paradosso che il creditore insoddisfatto, da una parte, non possa agire in giudizio per la tutela delle proprie ragioni (vuoi per salvare il rapporto commerciale, vuoi per le tempistiche della tutela); dall’altra, non possa rendere liquido il proprio credito, attraverso la sua alienazione.
Fermo il dettato legislativo, su cui torneremo, il punto di partenza della riflessione è quello della validità del vincolo di incedibilità, anche nel momento successivo alla scadenza del termine per l’adempimento da parte del debitore. Appartiene, infatti, alle fonti di diritto romano, il principio inadimplenti non est adimplendum; in breve, non si vede il motivo per cui se il debitore non adempie, il creditore debba rispettare l’impegno a non cedere il credito.
Questa considerazione, quasi di diritto naturale, trova una giustificazione dogmatica più articolata: la clausola di incedibilità del credito, infatti, dà origine ad una obbligazione negativa, assunta dal creditore nei confronti del debitore. In altri termini, codesta obbligazione si configura come un impegno a non disporre del proprio credito per tutta la durata del rapporto obbligatorio o, se fosse fissato (il che non avviene mai nella prassi), per un termine convenuto.
La validità del pactum de non cedendo non incide, ovviamente, sull’esistenza del diritto di credito, bensì sulla sua libera trasferibilità. Se limitiamo l’osservazione all’obbligazione di “non fare” di fonte convenzionale, il patto deve confrontarsi non solo con la già citata norma posta all’art. 1260 cod. civ., ma anche con quella che impone di rispettare i limiti generali dettati dall’art. 1379 cod. civ., ovvero essere il divieto di alienare (i) giustificato da un interesse apprezzabile e (ii) contenuto entro limiti temporali convenuti.
Segnalo immediatamente, quanto alla necessità di un apprezzabile interesse, come parte della dottrina ritenga che il patto di incedibilità sia sempre valido, in ragione dell’interesse del debitore a conservare l’identità originaria del creditore. Tuttavia, questa lettura mi sembra criticabile, poiché presuppone un interesse in re ipsa che non trova riscontro né nell’art. 1322 né nell’art. 1379 cod. civ.
L’esperienza giuridica insegna che ogni obbligazione negativa, per essere efficace, deve essere limitata nel tempo e sorretta da uno scopo conforme ai princìpi dell’ordinamento. Il patto di incedibilità mi sembra che non faccia eccezione: la sua validità dipende dalla ricorrenza di un interesse effettivo del debitore, da valutarsi in concreto. Interesse che non può consistere in un generico desiderio di riservatezza, né nella mera volontà di evitare il confronto con soggetti terzi.
D’altra parte, la dottrina ha rilevato che un vincolo perpetuo di incedibilità risulterebbe nullo per violazione dei princìpi di buona fede, equilibrio contrattuale e ragionevolezza; la giurisprudenza, inoltre, ha escluso la validità di obbligazioni negative a durata indeterminata o perpetua, in quanto lesive della libertà contrattuale e contrarie al principio di buona fede (cfr. Cass. 12769/1999). Anche la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che la libertà negoziale – e, quindi, il potere di esercitare un atto di autonomia privata che limiti i propri poteri dispositivi – debba essere bilanciata con le esigenze di circolazione della ricchezza e tutela del credito (Corte cost. 95/2006).
Spostiamo l’attenzione sulla necessità di individuare un termine di durata del pactum de non cedendo, in assenza di un termine espresso dalle parti: sembra agevole, anche alla luce di evitare il paradosso descritto in apertura, individuare detto termine nell’unico dato temporale già previsto dalle parti, vale a dire il momento fissato (nel contratto o nella fattura), per l’adempimento del debitore. In breve, mi sembra risponda a logica, prima ancora che a coerenza di sistema, che la durata del vincolo di incedibilità coincida con il termine di scadenza dell’obbligazione principale, come determinata dalle parti o risultante dal documento fiscale.
In caso di mora del debitore, dunque, il patto di incedibilità sembra inefficace e il creditore potrà procedere alla cessione, anche in violazione del patto, senza incorrere in responsabilità. Diversamente, si giungerebbe all’effetto paradossale di un credito difficilmente esigibile e non alienabile, in aperto contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale e della funzione economico-sociale del credito stesso. Il rischio è quello di svuotare di contenuto il diritto di credito, privandolo della sua dimensione dinamica e patrimoniale, con possibili ricadute anche in termini di violazione dell’art. 41 Cost., che tutela la libertà di iniziativa economica.
È comunque sul piano dell’opponibilità della clausola, che occorre una tutela bilanciata degli interessi in gioco. La clausola di incedibilità, invero, produce effetti solo tra le parti, salvo che il cessionario ne fosse a conoscenza al momento della cessione. La disciplina positiva, dunque, consente una tutela bilanciata tra esigenze del debitore e legittime aspettative del cessionario.
Quest’ultimo può, comunque, esercitare i rimedi contrattuali nei confronti del cedente, ove risulti ingannato circa l’effettiva cedibilità del credito (ma spesso, si tratta di rimedio tardivo). Non può, invece, pretendere di ottenere la prestazione dal debitore, se il patto di incedibilità era conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, o con quella qualificata laddove il cessionario sia un intermediario finanziario, o comunque un professionista del settore. Con favore, quindi, deve valutarsi il rigore con cui la giurisprudenza di legittimità interpreta la clausola di incedibilità convenzionale, e ne afferma l’efficacia nei confronti del terzo acquirente, solo laddove sia dimostrato che il cessionario abbia avuto conoscenza effettiva di detto patto al tempo della cessione (Cass. 4543/2024; Cass. 5129/2020).
La dottrina non ha mancato di ricordare come le grandi imprese spesso inseriscono clausole di incedibilità (di natura vessatoria) nei propri contratti standard, imponendo di fatto al creditore una paralisi operativa. In tali casi, il sindacato giudiziale sul vincolo pattizio diventa essenziale per evitare abusi di posizioni contrattuali dominanti. E la rilevanza dell’interesse del debitore gioca un ruolo fondamentale: codesto interesse alla non circolazione del credito non può considerarsi implicito, ma va dimostrato caso per caso. Un interesse astratto alla riservatezza, o alla stabilità soggettiva del rapporto, non sembra di per sé sufficiente a giustificare il vincolo.
Ovviamente, la violazione del patto non comporta la nullità della cessione – tant’è che il credito incedibile, può comunque essere assicurato dal cessionario, con l’accortezza di munirsi di un mandato all’incasso da parte del cedente – ma l’inefficacia relativa nei confronti del debitore, che può continuare a pagare il cedente. Restano, in ogni caso, fermi gli effetti interni tra cedente e cessionario, con obbligo di restituzione al vero creditore di quanto percepito illegittimamente, in forza della regola posta al capoverso dell’art. 1189 cod. civ., in tema di creditore apparente.
L’efficacia del patto di incedibilità non deve porsi in contrasto con i princìpi costituzionali di libertà economica (art. 41 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.); il che ci riporta a valutare l’ammissibilità di patti illimitati nel tempo, e privi di giustificazione concreta. Invero, se il creditore si trovi in una situazione in cui non può né incassare il credito, né cederlo per ottenerne anticipazioni, si configura una compressione ingiustificata della sua sfera giuridico-patrimoniale.
Alla luce delle riflessioni esposte, appare inevitabile riconoscere come, la validità del pactum de non cedendo, non possa ritenersi illimitata e incondizionata.
Codesto patto, a parere di chi scrive, sarà ammissibile solo se giustificato da un interesse concreto, proporzionato e temporalmente limitato. In mancanza, il divieto sembra risolversi in un’ingerenza illegittima nella sfera patrimoniale del creditore, con possibili profili di incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3 e 41 della Costituzione. L’interpretazione dell’art. 1260 cod. civ. deve, dunque, essere condotta in chiave sistematica e costituzionalmente orientata, alla luce anche dell’art. 1379 cod. civ. e dei princìpi di buona fede e correttezza. In particolare, dovrebbe ritenersi invalido, o quantomeno inefficace, ogni patto che vieti la cessione del credito senza indicare un termine di durata, salvo che non sia giustificato da esigenze specifiche e temporalmente determinate. In prospettiva, non si esclude che la questione possa essere sollevata in via incidentale dinanzi alla Corte costituzionale, qualora la disciplina venga interpretata – o applicata – in senso tale da consentire un divieto perpetuo di circolazione del credito, incompatibile con il tessuto garantistico della nostra Carta fondamentale. Solo così si potrà assicurare un equilibrio tra libertà contrattuale e tutela dell’efficienza dei traffici giuridici.